Nanowritober Challenge! #03

Nanowritober Challenge! #03

Nanowritober è una challenge di scrittura proposta da WriMo Italia! Durante il mese di ottobre, verranno proposte delle parole chiave sulle quali costruire dei brani estemporanei. Ho deciso di creare dei testi tratti dalla storia di Dodici Giorni! La parola di oggi è “Tre” e il consiglio bonus è quello di scrivere un brano di aggiungere uno o più termini tra “panchina”, “freddo” e “festa”. Pronti? Via!

Episodio 3: “Tre”

 

11 ottobre 2009,

Starbright Beach, Los Angeles, California

 

Tre. Due. Uno.
Prendi un respiro profondo.
Tre. Due. Uno.
– Mamma, papà… – Un altro respiro, ma è la cosa più difficile del mondo. L’aria ha abbandonato i miei polmoni. – …io sono gay.
Aspetto. Non fiatano. Vado avanti: – Volevo dirvelo da tanto tempo, ma non trovavo il coraggio e… non voglio più rimandare, non voglio più nascondermi davanti a voi. Questa è la verità. Io sono gay, e Paul è il mio ragazzo. Noi ci amiamo, stiamo insieme da un po’.
Non rispondono. Papà col viso rosso abbassa lo sguardo nel suo bicchiere di whiskey. Mamma sposta gli occhi contro il muro. Potrei quasi dubitare di averlo detto davvero, ma poi la voce di mia madre, tremante, cancella le mie incertezze e azzarda: – P-Paul… quell’amico di Connor?

– Sì, lui. Giocavano insieme nel team di football, a scuola.

– Quindi è stata colpa di Connor?

Colpa. Ha usato davvero la parola colpa? – Mamma no, n-non… non è colpa di nessuno… non…

– Siamo stati noi, allora! Noi! Dio ci punisce, siamo stati noi – Mamma scoppia a piangere, si nasconde il viso tra le mani. Io mi alzo per andarle incontro, consolarla, ma prima che possa toccarla, lei si scosta, come se fossi contagioso.
Come se fossi ricoperto da una melma disgustosa e maleodorante.

– Patrick… – piagnucola, voltandosi verso mio padre, e il suo nome detto così suona quasi come una preghiera. – Patrick, perdonami, perdonami…

– Non posso perdonarti. Questa degenerazione è tutta colpa tua. Martha, questa è tutta colpa tua e delle tue carezze! Sapevo che sarebbe finita così, quante volte te lo avevo detto, eh? Ti avevo detto che esageravi con lui! Che lo coccolavi troppo! Sei stata tu a farlo diventare un frocio!

Vorrei rispondere,  ma quella parola mi paralizza. Resto immobile. Il corpo rivolto a mia madre, le braccia sembrano rami stanchi che si appoggiano ai miei fianchi. Non so cosa farci. Mio padre mi chiama frocio e io penso che non so cosa fare con le mie braccia.

– Ma quella bella ragazza… Angel… io pensavo che… pensavo che… – mormora mamma, la sua voce è un sussurro. – Veniva qui, voi… parlavate tanto…
– Lei è la ragazza del mio migliore amico. – Riesco a dire tutto d’un fiato e mi rendo conto di quanto sia stupida, questa frase. Non dico altro. Non piango. Non so come sia possibile, ma non sto piangendo.
– Disgustoso. – Mio padre si alza, mi guarda in faccia per la prima volta. Il suo è uno sguardo carico di disprezzo, che non dimenticherò mai più finché campo. – Uno schifoso invertito. Un degenerato! Anche tuo fratello si mischia con quelli come te? Anche lui è un peccatore abominevole?

– Quelli come me. Cioè, persone normali, papà?

– No! Non usare la parola normale. Tu non sei normale! Sei un uomo che va con altri uomini! Non cercare di normalizzare la tua degenerazione!

– Non c’è niente di degenerato in me! Io sono nato così, ci sono nato! – Sto gridando, ma non vorrei farlo, vorrei che mi dicesse “Scusami, Sean, non so cosa mi sia passato per la testa, ti voglio bene” e invece mi guarda con quegli occhi gelidi che mi odiano e che dicono quanto io sia orribile, per lui.

– Sei un bugiardo, uno schifoso bugiardo. – ruggisce mio padre, l’odore di alcol dal suo fiato arriva fino alle mie narici. – Tu ci sei diventato così, da quando siamo venuti in California, in questa terra piena di peccatori, e tua madre, tua madre con quelle moine ti ha fatto diventare molle, una femminuccia! Ma io non lo permetto, io ti ammazzo, prima di vederti con un maschio ti ammazzo. Mi hai sentito? Io ti ammazzo!

– Patrick, per l’amor di Dio, Patrick!

Le mani di mio padre sono già alzate. Sento dei tonfi, ha colpito prima mamma che era più vicina a lui, gridandole qualcosa, e ora sta per colpire me. Io resto fermo. E poi sento: – Che cazzo sta succedendo? – E una figura si materializza tra me e mio padre. Riconosco mio fratello dai suoi capelli rossi, scompigliati, e dalla stazza da giocatore di rugby ma le immagini sono confuse davanti a me. Le urla di mia madre continuano a rimbombarmi nella testa e sento solo suoni vaghi.

Mio padre indietreggia. – Togliti di mezzo, io lo uccido. Così come l’ho fatto lo distruggo! Lo faccio a pezzi!

– Se tocchi anche solo un capello a Sean, sono io che ammazzo te. Ti ammazzo, pa’. Ti avverto.

– Connor, tuo fratello è un frocio! Fa il frocio coi tuoi amici! Lo sapevi? Lo sapevi che sta sporcando il nome dei Leary?

– Non usare quella parola. – Soffia mio fratello, e mi sembra ancora più grosso. – Mai più. O te ne pentirai sul serio. – Connor si volta brevemente a guardarmi. – Stai bene?

Io non riesco a rispondergli. Si gira verso mamma, che sta piangendo ma ha smesso di urlare. – Questo è l’amore che dicevi di provare per i tuoi figli, eh? Ti rendi conto di quanto male gli stai facendo?

– Non osare parlare a tua madre con quel tono, Connor Leary!

Tu non osare dare ordini a me. – Gli occhi di mio fratello dardeggiano. Mio padre non osa sfidare lui. Il suo tono si affievolisce. Ha paura di Connor.

– Stai contribuendo a mandarlo all’inferno. Sei suo complice.

– Parli di tuo figlio come se avesse commesso un crimine. Se un inferno esiste, sono certo che ci andranno i genitori come voi, non certo Sean. – Mi mette un braccio attorno alle spalle. – Andiamocene. Basta così.

Mi ritrovo fuori casa dei miei genitori, trascinato da mio fratello, e sento la porta chiudersi, mia madre gridare, mio padre spaccare il bicchiere, e mi chiedo se li rivedrò ancora. Vorranno rivedermi? Camminiamo per qualche isolato. Connor sospira, mentre sediamo su una panchina non lontano dal nostro vecchio liceo. Ci siamo diplomati da cinque mesi ma sembrano passati secoli. Viviamo entrambi a Los Angeles, io condivido un appartamento con sei studenti, frequento la facoltà di legge all’università pubblica, lui con due ragazze che studiano psicologia. Torniamo a Starbright Beach solo per salutare i miei, nel weekend. Ci tornerò ancora?

– Ti avevo detto di aspettare me. – Il tono di Connor è secco. Aggiunge, torvo: – Te lo avevo detto. Il mio autobus fa dieci minuti di ritardo e ti ritrovo in quella situazione assurda. Ti rendi conto di quanto mi hai spaventato?

– Scusami.

– Ma si può sapere perché non hai reagito? Lo sai che stava per colpirti?

– Cosa avrei dovuto fare?

– Quello che fai sempre. Ti difendi. Le dai per primo. – borbotta, nervoso. – Quello che ti ho insegnato io.

– Dovevo picchiare papà? – chiedo, ma la mia voce è un sussurro. Al solo pensiero mi vengono i brividi.

– Lui ti avrebbe picchiato. Lo sai che ti avrebbe picchiato. – Gli echi nella voce di Connor sono aspri. Il suo sguardo è freddo. – Lo ha sempre fatto.

– Non sono riuscito a muovere un muscolo. – ammetto, mio fratello mi guarda. Mi abbraccia di nuovo.

– Mi dispiace, mi dispiace, non volevo essere duro con te.

Ho iniziato a piangere senza neppure accorgermene. Lui mi stringe più forte.

– Non volevo dire che dovevi difenderti, è stato stupido da parte mia. Non dovevi fare niente. Era lui a doversi comportare in modo civile, tu non avevi nessuna responsabilità. È solo che odio quello che è successo. Odio che tu fossi da solo ad affrontarli. Dovevo essere presente anch’io.

– Connor, se non volessero più vedermi?

– Vuoi davvero rivedere due persone del genere? – mi domanda, incredulo. E forse al suo posto sarei incredulo anch’io.

– Ma… ma sono i miei genitori. Sono i nostri genitori.

– Ah, io non ho due genitori. – fa lui, noncurante. – E non li avrò finché non ti chiederanno scusa per come si sono comportati oggi.

Alzo gli occhi in quelli di mio fratello. Io e Connor siamo gemelli ma siamo stati sempre tanto diversi. Lui è più grosso di me, più alto e robusto, ha i capelli rossi, è un playboy nato. Io vado in palestra e sono piuttosto forte, ma non ho le sue spalle, anche se sono più agile, e io riuscivo a scappare da papà e quando non scappavo incassavo, lui ha iniziato a reagire, e papà, con lui non ci ha provato più. I miei capelli sono biondi, come quelli di papà. Mi piacciono le relazioni stabili, non sono un playboy. Ho un ragazzo da un po’. Siamo felici. Avrei voluto presentarlo a mamma e papà. Ma mamma starà ancora gridando. E papà mi ha chiamato frocio.

– Sean.

Ho ricominciato a piangere. E non riesco a fermarmi. – Loro sono la mia famiglia.

Io sono la tua famiglia.

Quando eravamo piccoli, Connor mi ha insegnato a fare a botte. Per difendermi, diceva lui. Colpisci tu per primo, se vedi che stanno per picchiarti, colpisci tu per primo. E qualche volta, lo ammetto, le ho date di santa ragione e me ne sono pentito. Ho dato un pugno a uno che stava ricoprendo di insulti una mia amica, e ho colpito anche persone che amavo quando sono diventate pericolose, ma la violenza non sistema nulla. La violenza non è mai la risposta. È un linguaggio che ho incorporato, che ho usato, e che vorrei dimenticare.
Dopo oggi, la voglio dimenticare.
Connor lo ha sempre saputo. Che ero gay, intendo. Lo ha sempre saputo. Per questo mi ha insegnato a difendermi. E quando gli altri bambini mi prendevano in giro, e da solo non ce la facevo, eccolo pronto a difendermi. Quando qualcuno usava quella parola, quella che ha usato papà, lui lo stendeva a terra. Una volta è stato espulso. È stato poco prima che ci trasferissimo in California.
Non ha raccontato a nessuno perché abbia quasi ucciso Jerry Monroe a suon di cazzotti. Perché i genitori di Jerry Monroe non hanno sporto denuncia quando il loro figlio è stato trovato agonizzante in una pozza di sangue. Loro lo sapevano cos’era successo. Lo sapevano che Connor mi aveva salvato da un incubo che avrebbe marchiato a fuoco la mia pelle, la mia vita, e lo sapevano che il figlio era pericoloso. Sapevano che lo aveva già fatto. Che altri ragazzi non erano stati così fortunati da avere un fratello come il mio. E ancora sento le sue mani luride su di me.  Connor è venuto sempre a salvarmi. E quasi intuendo quello che penso, mio fratello mi prende la mano e pare volermi dire “Verrò sempre a salvarti”, e io mi sento amato, e al sicuro, e ha ragione quando dice che lui è la mia famiglia. Lui è mio fratello. – Grazie, Connor.

– Andiamo a mettere qualcosa sotto i denti, e poi torniamocene a Los Angeles. Ti va?

Oggi è il giorno in cui ho deciso che sarò io a proteggere quelli che ne avranno bisogno. Ma colpire per primo, ora l’ho capito, non è la strategia giusta. Studierò per diventare avvocato e difenderò i diritti di chi non riesce a difendersi da solo. Non avrò mai più bisogno della violenza, userò soltanto le parole. E un giorno, tutti noi derelitti che siamo stati chiamati invertiti, schifosi, abomini, saremo un esercito e saremo una famiglia, un’enorme famiglia, piena di amore, comprensione. Sicurezza.
Una famiglia in cui non saremo costretti a nasconderci.
Una famiglia in cui potremo sentirci al sicuro.

– Sì, buona idea.

Nanowritober è una challenge di scrittura lanciata da WriMo Italia!

Durante il mese di ottobre, verranno proposte delle parole chiave sulle quali costruire dei brani estemporanei.

Ho deciso di partecipare, creando dei testi tratti da Dodici Giorni, il mio primo romanzo!

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A presto!

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