Nanowritober Challenge! #01

Nanowritober Challenge! #01

Nanowritober è una challenge di scrittura proposta da WriMo Italia! Durante il mese di ottobre, verranno proposte delle parole chiave sulle quali costruire dei brani estemporanei. Ho deciso di creare dei testi tratti dalla storia di Dodici Giorni! La parola di oggi è “Nebbia” e il consiglio è quello di scrivere un brano introspettivo. Pronti? Via!

Episodio 1: “Nebbia”

 

17 marzo 2018,

Utrecht, Provincia di Utrecht, Paesi Bassi

 

La nuova stanza di Femke si trova in un appartamento nella periferia di Utrecht.

Prima di trasferirsi lì, ha partecipato a tre di quelle opere diaboliche comunemente chiamate “Hospiavond”. Si tratta di un’usanza olandese molto particolare: tutti i candidati a diventare il prossimo coinquilino di una certa casa condivisa sono costretti a partecipare ad una specie di festa-interrogatorio-torneo all’ultimo sangue al fine ultimo di convincere quelli che nella casa ci abitano già a sceglierli. Questo, naturalmente, a discapito degli altri. Una sorta di reality show in cui gli inquilini giocano con la possibilità altrui di vivere con un tetto sopra la testa oppure restare senza un posto in cui vivere, e sfruttano le loro ansie, le loro paure, a volte anche solo per divertirsi e chiedere le cose più improbabili – del tipo che una volta, durante le visite per una stanza più vicina al centro a cui ho accompagnato Femke, due ragazze le hanno chiesto se era onnivora, perché loro avrebbero affittato solo ad altre ragazze onnivore, e “gente vegana non ne volevano intorno”. 

Insomma, le “Hospiavond” sono una roba così contorta e di cattivo gusto che ringrazio la mia buona stella per non avermi mai messo nella posizione di viverle in prima persona. 

Per fortuna, alla fine, Femke quest’ultima camera è riuscita ad accaparrarsela e il primo di marzo è venuta a viverci. Io e Kees l’abbiamo aiutata col trasloco, lui si è occupato degli strumenti, io dei libri. Abbiamo anche appeso il grosso poster di Femke che ritrae i Diving Jack proprio sopra il letto. Risale all’epoca del loro primo EP, nel 2009, Me la ricordo quella foto. Ero a New York, credo sia stata Sherry a mandarmene una. Mentre due settimane fa attaccavo quel poster alla parete, proprio come allora, è stato piuttosto bizzarro guardare Edge ritratto lì sopra, con uno sguardo che Femke ha definito “accattivante” ma che in realtà sapevo derivava soltanto dal disagio di farsi fotografare – Edge odiava farsi fotografare, paradossalmente odiava la fama, lui voleva solo suonare le sue canzoni. 

Avevo pensato di inviargli una foto di sé stesso su quel poster gigante, ma poi ho preferito non farlo. È meglio se per un po’ evitiamo di scriverci. O per essere più precisi, io devo evitare di scrivergli. Lui non riesce a smettere, ma io so che è la cosa giusta da fare, soprattutto per lui. Oppure questa rottura non avrà avuto il minimo senso, e voglio che invece un senso ce l’abbia.

Tornando a Femke, comunque, posso dire che la sua è persino una camera quasi decente, se consideriamo lo standard delle camere a Utrecht: costosissime e fatiscenti. Ne avevamo vista una in condizioni talmente disastrate – non nell’appartamento delle ragazze onnivore, ma in un’altra casa condivisa da una donna anziana, che ci aveva aperto la porta con un braccio fasciato alla bell’e meglio e tutto sanguinante, e due gemelli di ventisette anni, un maschio e una femmina, che collezionavano statuette di porcellana e a quanto pare dormivano anche nella stessa stanza che la donna ci aveva mostrato ma che aveva un solo letto a una piazza e mezzo, ma abbiamo preferito non indagare oltre – che ancora mi domando come sia possibile non averla messa sotto sequestro dalla polizia. C’erano bottiglie di birra vuote sul pavimento, bustine di assorbenti usati ammonticchiati in un angolo, e puzza di fumo stantio attaccata alle pareti del corridoio. Qui, invece, tutto sembra quantomeno salubre. Niente puzza di fumo, assorbenti correttamente gettati nei cestini dell’immondizia, giusto qualche piatto sporco di troppo abbandonato nel lavandino, ma nel complesso questa è un’ottima sistemazione. Femke ora condivide la casa con tre persone, e credo abbia già una cotta per uno dei suoi coinquilini ma spero per lei che non si metta in un altro casino e poi si ritrovi di nuovo costretta a cambiare casa. Cercare casa in Olanda è un inferno. 

Casa di Femke è al terzo piano di un palazzone grigio piazzato in un mazzo di altri palazzoni grigi che sembrano tanti scatoloni giganteschi stagliati contro un cielo ancora più grigio. Sulla destra c’è un complesso commerciale. Svolto a sinistra. Percorro qualche metro e poi svolto a destra. All’incrocio c’è una ragazzina che parla vivacemente, incurante della pioggerellina appena iniziata. Il suo hijab nero è una macchia scura illuminata dalla luce del cellulare premuto contro l’orecchio. Sopra di lei, una scritta dice Kaap Hoorndreef, caratteri bianchi su sfondo blu. Credo che non sarò mai in grado di pronunciarlo davvero bene. Kaap Hoorndreef. Femke dice di sì, e che con l’olandese ho fatto dei progressi enormi, ma a dire il vero non saprei. Mi sembra di non essere mai abbastanza brava. Prima, mentre mi avvicinavo al quartiere allontanandomi sempre di più dal centro cittadino, la pista ciclabile su cui pedalavo costeggiava un canaletto dall’acqua torbida. Mi sono persa a guardare il muro di alberi accanto a me, quell’immagine ha rapito tutta la mia attenzione: era composto da sagome scure indefinite, avvolte dalla nebbia fitta che non mi permetteva di vedere molto lontano. Non vedevo nient’altro, solo quegli alberi neri e il colore della pista ciclabile che mi ricorda quello dei mattoni. Era tutto ciò che avevo davanti agli occhi, o meglio, tutto ciò che era visibile, ai miei occhi. Il resto del mondo divorato dalla nebbia. Quello e qualche faretto bianco o rosso che lampeggiava, fendendo la coltre spessa di umidità. Ma la nebbia era la vera protagonista di quel percorso, impenetrabile. Lo è anche qui, a Kaap Hoorndreef, mentre parcheggio la bici e alle mie spalle già non vedo più la ragazzina con l’hijab nero. Sento la sua voce concitata, so che c’è, ma non posso vederla.

A marzo è sempre così. Non mi ha sorpreso la nebbia densa, sapevo che l’avrei trovata. Mi ha sorpreso piuttosto il senso di abitudine che ho provato nel sapere che ci sarebbe stata, che ci sarebbero state le sagome degli alberi e che sarebbero state indistinte, che ci sarebbero state le lucette segnaletiche dei ciclisti ma loro non li avrei visti. 

Mi ha sorpreso perché era una consapevolezza familiare, come di una cosa ormai consolidata dentro di me: vivo in questo Paese da due anni e so quando ci sarà la nebbia. 

Sono già passati due anni. A volte sembrano cento, a volte sembra un giorno soltanto.

Infilo la ruota anteriore della bici presa a noleggio alla stazione in una rastrelliera. Lego con due catenacci il corpo blu e giallo, non voglio che me la rubino, devo restituirla prima di riprendere il treno stasera, e questo sistema, per quanto seccante, si è rivelato utile in altre occasioni. Infatti, nel mio zaino, porto sempre due catenacci: uno lo userò per legare insieme la ruota e il manubrio, l’altro per assicurare la bici alla rastrelliera. 

Il ferro sotto le dita è gelido dopo aver assorbito il freddo pungente della primavera in ritardo. 

Due anni prima, io ed Edge eravamo seduti fuori casa mia, e c’era nebbia ovunque, tanto che non riuscivamo a vedere le barche ormeggiate a pochi metri dal portico, lui mi ha guardato e ha sentenziato: “Benvenuti a Silent Hill”. Edge odia il fatto che io stia qui. Mi manca, mi manca davvero tanto ma tu lo sai, lo sai che non posso scrivergli che questa nebbia mi ha fatto ripensare a lui, e sai che non posso dirgli di quel poster. Sai che sarebbe tutto più brutto, più crudele, perché non potrò mai dargli quello che vorrebbe davvero da me e anche se continua a scrivermi, dirmi che possiamo essere amici, so che mente. Non perché sia cattivo, cielo, non penso che lui sia cattivo, penso soltanto che non si renda conto di quanto male faccia a Cece continuando a rincorrere me.

Io non posso più far parte della sua vita, oppure lui non potrà mai andare avanti. Sarebbe tutto diverso se lo amassi anch’io. Ma questo non è possibile. 

Ogni giorno, da due anni, io ti racconto tutto in questi monologhi silenziosi tutto quello che mi succede e sei tu il destinatario di ogni mio pensiero. E tu sei il motivo vero per cui io non potrò mai amare un altro. Nemmeno Edge. E se tu sei il motivo per cui non potrò mai andare avanti, io sono il motivo per cui non posso parlarti di questa nebbia e dirti che Edge è stato il mio migliore amico e qualche volta ho pensato che se mi fossi innamorata di lui sarebbe stato tutto più semplice, perché lo so, lo so che mi ama, ma io non posso amarlo. Io posso amare soltanto te. Per sempre. Fino alla fine. Io posso amare soltanto te, perché tu sei in ogni angolo di me, tu sei dentro di me. So che tutto questo è colpa mia. Soltanto colpa mia.

Femke è l’unica a sapere tutto, sai? A lei ho detto tutto di noi. Lei dice che riesce a capirmi. Quando dico che sono stata spietata lei mi abbraccia. Quando piango, mi dice che un giorno le cose si sistemeranno. Dice che un giorno starò bene. Femke è una brava amica. 

Si apre il portoncino, entro lasciandomi alle spalle la coltre di nebbia e adesso tutto torna vivido. Prendo l’ascensore e salgo al terzo piano. 

Vorrei dirti della nebbia. Vorrei dirti di Edge. Vorrei dirti del terzo piano.

Nanowritober è una challenge di scrittura lanciata da WriMo Italia!

Durante il mese di ottobre, verranno proposte delle parole chiave sulle quali costruire dei brani estemporanei.

Ho deciso di partecipare, creando dei testi tratti da Dodici Giorni, il mio primo romanzo!

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A presto!

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