Dodici La Serie – Episodio 6
12 aprile 1993,
Starbright Beach, Los Angeles, California
La sagoma della casa si stagliava di fronte a lei. Non la ricordava così grande. Era un’immagine familiare e sconosciuta al tempo stesso, e la sua sola visione bastò a scatenare nel suo cuore un miscuglio di emozioni negative e positive. Non avrebbe saputo dire quali prevalessero.
Ripensò alla notte in cui Jeff l’aveva portata sollevandola tra le braccia oltre la soglia dell’appartamento in cui aveva abitato negli ultimi cinque anni, dicendole: “Benvenuta a casa, signora McMahon”. Indossavano ancora gli abiti del matrimonio.
Strinse le palpebre.
Le sembrava quasi di sentire la sua voce, il suo odore di dopobarba sulla pelle. Le sue mani tra i capelli. “Dio, quanto ti amo”.
– Ames, tutto bene? – Sua sorella le appoggiò una mano sulla spalla, riportandola al presente. Lene la scrutava con un’espressione preoccupata. Sul suo zigomo sinistro un piccolo taglio tardava a rimarginarsi. Era stato lui a procurarglielo. Strinse più forte la bambina che aveva in braccio, d’istinto. Appoggiò le labbra sulla sua testolina piena di capelli castani. L’odore di talco attenuò l’ondata di dolore che le aveva colpito il petto.
– Brutti pensieri?
La giovane donna annuì, poi tornò a guardare la casa. L’erba del prato era molto curata. C’era una graziosa cassetta per le lettere bianca, sulla quale era inciso a caratteri eleganti “Famiglia Van Doorn”.
Lene la superò, in mano un mazzo di chiavi. – Non venivo qui da dieci anni, e non pensavo davvero che ci sarei tornata. È sempre tutto uguale, non trovi?
– Già – rispose lei, con una certa fatica. Era come se fosse avvolta da uno strano torpore.
La villa era bianca, il tetto di un bel marroncino splendente, così come il numero 4 affisso alla destra della porta. Sui due piani si aprivano grandi finestre. Nonno Bas era stato un amante delle finestre ampie. Secondo lui, una casa aveva bisogno di tantissima luce. Sul lato sinistro, poteva intravedere attraverso i vetri, al di là delle tende scostate, le pareti gialline della cucina. Una lunga siepe separava il lato anteriore dal giardino sul retro. Sulla destra, il garage con la serranda abbassata sembrava dormire. Da bambina, aveva sempre pensato di vedere una faccia di orco composta dalle due maniglie speculari su quell’apertura, che ne rappresentavano gli occhi, e una bocca proprio in basso al centro, in cui infilare le chiavi. Si chiese se la sua vecchia bici fosse ancora là dentro, avrebbe controllato.
Sua sorella camminava lungo il vialetto, i capelli corti fino alla spalla si muovevano in onde ramate, danzando sotto il sole primaverile e brillando di riflessi luminosi. Le chiavi tintinnavano, ed era come se accompagnassero la sua marcia verso la porta. – Dovresti essere tu ad aprire, sai? Questo è l’inizio ufficiale della tua nuova vita.
Continuando a tenere al petto la bambina con un braccio, utilizzò la mano libera per prendere le chiavi che l’altra donna le stava allungando. – È quella con su scritto “porta principale”.
Lesse la scritta. Scelse la chiave. Si voltò a guardare suo figlio che camminava mano nella mano con i nonni, e stava raccontando loro di quant’era stato bello il suo primo viaggio in aereo. Gli avevano offerto noccioline e una grossa soda, e un’assistente di viaggio gli aveva detto che i suoi disegni erano bellissimi.
La ragazza prese un respiro profondo e girò la mano. Sentì un sonoro clic, e un piccolo scatto. La porta si aprì docile, mostrando il lungo corridoio, vuoto.
– Pa’, dov’è tutta la roba dei nonni? – chiese Lene, una volta dentro, all’uomo che si avvicinava insieme al resto della famiglia.
– Non c’è più. Questa adesso è la casa di Amanda. È giusto che sia lei a riempirla come meglio crede.
– Hai tolto la regina dal muro, pazzesco! – Lene scoppiò a ridere. I suoi nonni avevano affisso sul corridoio dell’ingresso un’enorme gigantografia della regina Juliana dei Paesi Bassi. Amanda pensò che le sarebbe piaciuto riempire quella parete con tante foto, un domani. Sentì che la bimba si muoveva, tra le sue braccia, ma continuava a dormire. Lei varcò l’uscio. Un passo. Due. Aveva superato una nuova soglia, e stavolta lui non c’era.
– Vieni, Adrian, voglio mostrarti il salone – disse l’uomo, e col bambino si avviò sulla destra. Un enorme sala dalle pareti azzurrine occupava un’intera ala della casa.
Il bambino sembrò estasiato da quella visione, e si lanciò a correre nello stanzone tanto vasto, completamente vuoto. I suoi passi rimbombavano nell’ambiente. Tac, tac, tac. Colpi sul pavimento di marmo chiaro. Le pareti alte di colore azzurrino e il soffitto bianco gli sembrarono quelli di una grotta di ghiaccio. – Nonno! Facciamo che io ero un eroe e ti dovevo sconfiggere?
– Certo, campione – rise lui, mentre il bambino assumeva i comportamenti di un guerriero. L’uomo fece in modo di mutare la sua voce, che uscì cavernosa: – Qual è il tuo nome, straniero?
– Io sono Adrian il Valoroso! E ti sconfiggerò, mostro del ghiaccio!
Il nonno si difese dai colpi di una spada immaginaria, mentre suo nipote cercava di simulare i suoni di una feroce battaglia. Jeroen Van Doorn, dopo qualche minuto di sofferta lotta, accettò la sconfitta con grande onore, poiché non poteva certo vincere contro Adrian il Valoroso. Prese il nipote tra le braccia e lo sollevò. – Allora, ti piace la tua nuova casa?
– È gigantissima!
– Sì, è molto grande – confermò l’uomo, guardandosi intorno. – Sai, quando ero bambino anche io vivevo qui, con i miei genitori.
Il piccolo Adrian lo guardò, sbalordito. – Davvero?
– Davvero – disse lui, e Adrian si avvicinò per sussurrargli qualcosa all’orecchio.
– E hai mai trovato dei tesori nascosti?
– Purtroppo no, ma potremmo cercarli insieme, che ne dici?
– Evvai! – esclamò il bambino. Sua madre li osservava appoggiata allo stipite della porta.
– Oh, mamma! Questa casa è super mitica! – fece il bambino, euforico.
– Sai che c’è anche un grande giardino sul retro? Va’ a vedere, ti accompagnerà la nonna – suggerì lui, e il bambino sembrò fuori di sé dalla gioia. Jeroen lo rimise a terra, e il piccolo sgambettò fuori per vedere coi suoi stessi occhi quanto fosse meraviglioso il giardino di cui aveva appena scoperto l’esistenza. Non aveva mai avuto così tanto spazio a disposizione, a New York. La giovane donna guardò suo figlio allontanarsi. Il padre le andò vicino, indicandogli la bambina. – Vuoi darla un po’ a me?
– No, va bene così – rispose lei, accarezzando i capelli della piccola.
– Hai bisogno di riposare, tesoro. – Aveva ragione. Gli passò la figlioletta, e nel movimento la bimba si svegliò, guardandosi attorno, incuriosita. Aveva aperto per la prima volta gli occhi nella sua nuova casa. Era circondata di azzurro.
La villa al numero 4 di White Roses Road, che tutto il vicinato chiamava ancora “La vecchia villa Van Doorn”, era rimasta senza dei veri inquilini da quando Janneke Van Doorn, madre di Jeroen, era deceduta. Il figlio era stato restio a venderla, e col senno di poi, fu felice di non averlo fatto. Lui e sua moglie Phyllis ci erano tornati spesso nei periodi estivi, per tagliare l’erba e godersi mare e spiaggia, ma la casa era talmente grande e bella che utilizzarla solo per le vacanze gli era sempre sembrato uno spreco. Quando Amanda, all’inizio dell’anno, aveva manifestato il desiderio di lasciare New York e ricominciare da zero la sua vita, quella di regalare la casa a sua figlia gli era sembrata la soluzione più brillante. Si trovavano nel vecchio appartamento di Amanda, e i genitori della ragazza non erano più andati via dalla notte in cui Jeff aveva aggredito Lene.
– Restare qui è troppo pericoloso – aveva sentenziato Lene, il volto livido in seguito allo scontro avvenuto poche settimane prima. Amanda era silenziosa, pallida. I suoi capelli rosso fuoco contrastavano quasi spettralmente con la sua figura. – Dovresti venire a vivere a Hartford.
– No – aveva risposto la sorella, stringendosi di più nel grosso maglione di lana che indossava.
– Ma perché no? Puoi venire a stare da me e Quinn, o da mamma e papà, e potremmo proteggerti.
– E rischiare di vederti morta, la prossima volta? – aveva chiesto lei, con la voce rotta. – Non voglio che ti aggredisca di nuovo, non potrei sopportarlo.
Lene aveva battuto la mano sul tavolo, irritata. – Ti stai davvero colpevolizzando per quello che ha fatto quel pezzo di merda?
– Quel pezzo di merda è mio marito. Sono io che ti ho esposto a un pericolo simile. Non me lo perdonerò mai.
– Amanda, Lene ha ragione – aveva detto suo padre. Sua moglie Phyllis era chiusa in camera con i bambini, tentava di farli riposare. Erano ancora troppo spaventati e scossi, per dormire da soli. – Perché non vai a Starbright Beach?
– Papà, sei impazzito? Fin laggiù? – Lene aveva sgranato gli occhi, incredula. – In quella trappola per topi?
– Non è una trappola per topi, è la città in cui sono nato e cresciuto.
– Papà… – aveva mormorato lei, incerta. Lui l’aveva guardata negli occhi.
– Potresti trasferiti nella vecchia casa dei nonni.
– Io… non saprei. Come farei col mio lavoro?
– La tua azienda non ha anche una sede a Los Angeles?
– Sì… sì, ce l’ha – aveva risposto lei.
– Starbright Beach è a meno di cinquanta minuti da Los Angeles, è sul mare. Senza contare a quanto spazio avreste a disposizione, rispetto a questo appartamento striminzito.
Amanda Van Doorn era nata e cresciuta a Hartford, e dall’età di diciannove anni aveva vissuto a New York per studiare e lavorare. Nella sua vita aveva abitato in due città decisamente più grandi e più popolate. Mentre Starbright Beach era piccola, contava poco più di ventimila abitanti, e secondo sua sorella Lene era troppo calda, in qualsiasi periodo dell’anno. Lene non era molto amante della California e, a differenza di sua sorella, non avrebbe mai potuto abbandonare le temperature più fresche del New England, quindi era rimasta ad Hartford, e viveva non lontano dai suoi genitori. Ma Amanda, invece, aveva sempre amato la vecchia casa dei nonni. Era un luogo in cui era stata felice. Spensierata. E quella spensieratezza avrebbe potuto aiutarla davvero, ora che si sentiva troppo più vecchia dei suoi 28 anni. Era come se un macigno pesasse sulle sue spalle, e a volte avrebbe voluto cedere sotto il suo peso, chiudere gli occhi e dimenticare tutto.
– D’accordo. Credo sia una buona idea. Dopo il divorzio… ci trasferiremo lì.
Il ricordo del volto di sua sorella, tumefatto e livido, delle urla di suo figlio, la colpì facendole mancare il fiato. Guardò allarmata la bambina e incontrò i suoi occhi verdi.
– Amanda, cosa c’è? – chiese suo padre, notando la sua espressione terrorizzata.
Le labbra della ragazza tremarono. – Papà, ti prego, ridammela… – Riprese la piccola, mentre le lacrime cominciarono a scivolarle sul viso. Suo padre abbracciò entrambe. – Va tutto bene, figlia mia.
La manina della bimba si avvicinò al viso di Amanda. – Mamma bua?
– Non è niente, amore. Non è niente – disse lei con la voce rotta. Respirò a fondo, cercando di calmarsi. – Ti piace la nuova casetta?
La piccola alzò la testa e sollevò le braccine. – Tutto blu!
– Be’, questo colore in realtà si chiama azzurro. È un po’ più chiaro del blu.
Lei annuì, per indicare che aveva capito. – Azzurro – disse, con convinzione. Ripeteva spesso quello che diceva sua madre, cercando di imitarla al meglio delle sue capacità. Il nonno la guardò impressionato.
– Certo che parla davvero bene, per la sua età.
– Impariamo ogni giorno qualcosa di nuovo, vero?
– Qualcosa nuovo! – gridò la bimba, allegra.
– Proprio così, qualcosa di nuovo – ripeté Lene. Era comparsa sulla porta e li guardava commossa.
Si asciugò velocemente una lacrima e portò le mani ai fianchi. – Adrian ha detto che vuole costruire un castello nel giardino. Pensavo doveste saperlo.
– Vedremo cosa si può fare – fece il nonno, ridendo.
– Mamma, giù! – suggerì la bambina, e lei con una certa riluttanza la lasciò andare. I piedini si mossero sul pavimento mentre continuava a studiare l’ambiente circostante. I suoi passetti la portarono a esplorare l’intero piano, la madre la seguiva con lo sguardo. Sia il padre che la sorella di Amanda notarono quanto si stesse sforzando per non correre dietro alla piccola e riprenderla tra le braccia.
– Sta bene, Ames – sussurrò Lene, e lei fece un debole cenno d’assenso.
Dalla sera in cui Jeff aveva fatto irruzione nell’appartamento e portato via la bambina, Amanda aveva sviluppato una terribile ansia all’idea di staccarsi da lei.
– Tesoro, perché non vai a stenderti un po’? – suggerì Jeroen, mentre Amanda controllava la bambina che adesso avanzava verso la cucina. La sua camminata oscillava di tanto in tanto. Il suo sguardo si spostava in ogni angolo, studiava con cura tutto ciò che aveva intorno. Arrivò alla porta che dava sul giardino sul retro e provò a spingerla. – Chiusa!
Amanda fece per avanzare, ma sua sorella la fermò. – Vado io, Ames. Ci penso io, tu vai di sopra e cerca di riposarti. Noi pensiamo a scaricare l’auto.
– I bambini… – mormorò lei. Suo padre le avvolse le spalle con un braccio.
– I bambini sono in ottime mani.
Non protestò. Si avviò alle scale, guardò Lene aprire la porta a sua figlia. La bimba uscì fuori, prendendo la mano della zia. Respirò a fondo e salì. C’erano quattro camere da letto, una matrimoniale e tre singole, tutte arredate, e un lussuoso bagno, più grande di quello che c’era al piano di sotto, tra il salone e il vecchio studio del nonno.
Entrò nella camera matrimoniale e si gettò sul letto. Afferrò il cuscino e chiuse gli occhi. Sentiva le risate dei bambini provenire dal giardino. Il suo respiro si regolarizzò. Poi si trovò a camminare per la casa, e vide sua nonna Janneke su una sedia a dondolo. Stringeva un neonato. Di fronte a lei c’era un tavolo su cui fumava la sua solita tazza di tè pomeridiana, e un biscotto adagiato su un piattino.
– Oma, vuoi che apra le tende? È così buio qui dentro…
Ma lei pareva non averla sentita. Cullava il bambino, cantandogli una vecchia ninnananna olandese. La sua voce dolce intonava: “slaap, kindje slaap, daar buiten loopt een schaap, daar buiten loopt een bontekoe, het kindje doet zijn oogjens toe”, seguendo il movimento delle sue braccia. La riconobbe, era la canzone che cantava sempre a lei e sua sorella per farle addormentare.
Provò un’immensa tristezza, guardando quella scena. Avanzò verso di loro, e la nonna alzò il viso rotondo. – Oma, wil je dat ik de gordijnen open doe?
Pensava che le avrebbe detto che il suo accento era sempre troppo americano, ma lei ignorò ancora una volta la sua domanda. I suoi occhi azzurri e penetranti erano fissi su sua nipote. Le sorrise, e le chiese perché stesse piangendo. Amanda si toccò il viso, e i suoi polpastrelli si bagnarono di lacrime. Si avvicinò di più, ma era come se fosse sempre troppo distante per avvicinarsi abbastanza. Non vide il viso del bambino. Era avvolto in una copertina, e sembrava tanto piccolo, fragile. La più anziana disse ad Amanda di aspettare, perché presto sarebbe andato tutto bene.
– Oma, chi è questo bambino?
Ma lei non rispose. Riprese con la sua ninnananna, come se volesse tranquillizzarlo, eppure lui non stava piangendo, anzi, a guardarlo meglio sembrava non si muovesse affatto. Allungò una mano, mentre la nonna sussurrava: “Alles komt goed. Niet huilen”.
Andrà tutto bene. Non piangere.
Aprì gli occhi e stentò a riconoscere le pareti della sua nuova camera da letto. Era calata una notte placida, e dal piano di sotto arrivava un allegro vociare, rumore di piatti e posate. Sentì profumo di pizza. Si alzò, stiracchiandosi piano. Per quante ore aveva dormito?
Andò in bagno e si lavò il viso. Si accorse che gli asciugamani erano già stati sistemati, probabilmente da sua madre. Scese al piano di sotto. La stanza era illuminata dalla luce del lampadario.
– Ce ne hai messo di tempo per svegliarti, eh? – la canzonò sua sorella, dando un morso a una fetta di pizza.
– Mamma! – disse Adrian, balzando dalla sedia e correndole in contro. Lei abbracciò forte suo figlio. – Nonno ha preso la pizza! Vieni, c’è la tua preferita!
La donna prese la mano del bambino e si avviarono alla tavola, sedendo uno di fianco all’altra. Amanda vide sua figlia seduta in un seggiolone, il musetto sporco di pappa.
– Ha voluto mangiare da sola, non c’è stato verso di farle cambiare idea. Un anno e mezzo, ed è già così testarda! – esclamò sua nonna, la bambina si girò a guardarla.
– Tessarda – disse la bimba, provando a imitarla.
– Testarda – la corresse, scandendo le parole, mentre le puliva la bocca con un tovagliolo.
– Che vuol dire testarda? – chiese Adrian, mentre sua madre gli porgeva un’altra fetta di pizza.
– Una persona testarda è una persona che vuole fare sempre di testa sua – spiegò Amanda, e suo figlio annuì.
– Come papà?
Tutti ammutolirono. Adrian morse la sua fetta di pizza, e provò a chiedere di nuovo. – Anche papà fa di testa sua, vero? Per questo ce ne siamo andati dalla vecchia casa.
Jeroen sospirò. – Sì, Adrian. Possiamo dire che anche il tuo papà è una persona testarda. Però in un modo diverso, rispetto alla tua sorellina.
– Le persone testarde come papà picchiano le altre persone?
Amanda ripensò al visino terrorizzato di suo figlio, quella maledetta sera. Quante ne aveva passate in soli cinque mesi, il suo povero bambino. Aveva assistito a suo padre che sfondava la porta di casa, picchiava sua zia, lasciandola svenuta col viso sanguinante. Si era nascosto sotto il letto, facendo silenzio. E l’aveva visto prendere Angel e portarla via. Come si spiega a un bambino una cosa del genere? Come si fa a guardarlo negli occhi e dirgli che suo padre è un uomo pericoloso, e per il suo bene deve stare lontano da lui?
– Ade, sai… certe volte, i grandi si comportano molto male – disse Lene, cercando di parlargli nel modo più normale possibile. Versò della cola per sé e per il bambino, come se si fosse trattato di due vecchi amici, seduti al bar. – E fanno cose che non dovrebbero fare.
– Papà ti picchierà ancora? – chiese lui, preoccupato.
– No, Adrian. Non mi picchierà mai più, non toccherà più nessuno di noi. Mi credi?
Lui annuì.
– Adrian… – mormorò la madre – c’è qualche motivo per cui lo chiedi?
– No… è solo che adesso viviamo in un’altra casa.
La donna non capì subito cosa intendesse il bambino. Poi però riuscì a comprendere. – E ti senti più al sicuro, qui?
Lui annuì. – Non la porterà più via, vero?
Amanda si alzò e si inginocchiò di fronte ad Adrian. Accarezzò i suoi capelli lisci e castani, e poi il suo visino. – No, Ade.
– Io pensavo che… se succedeva qualcosa… era colpa mia.
Strinse forte suo figlio. – Non è mai colpa dei bambini, se gli adulti fanno cose brutte.
– Perché lui ha fatto male a zia Lene… e io…
– Non è stata colpa tua, Ade. Capito? – fece Lene, alzando il bicchiere di cola. – Cosa ti avevo detto, prima che papà entrasse in casa, ti ricordi?
– Nasconditi.
– E tu che hai fatto?
– Mi sono nascosto – rispose lui, e Lene gli fece l’occhiolino.
– Questo è il mio campione.
– Sei stato molto bravo, giovanotto – disse il nonno, e alle sue parole il bambino sembrò gonfiarsi di orgoglio.
– Papà non ci vuole più bene, vero, mamma?
E Amanda ripensò alla faccia di suo marito il giorno in cui Adrian era venuto al mondo. Lo aveva sollevato e aveva detto che quello era il momento più bello della sua vita. Solo cinque anni prima. Ricordava il suo viso sorridente. “Secondo te mi somiglia? Ha i miei occhi!”
Ripensò a quando avevano scoperto di aspettarlo. Lui inginocchiato di fronte a lei. “Amanda, vuoi sposarmi?”. La prima volta in cui l’aveva visto. Quel locale universitario, lui appoggiato al pianoforte, era bello, diabolico. “Mac. Mi chiamo Mac. In realtà è il mio nome d’arte, mi fa sembrare uno tosto. Quando studio legge, invece, mi chiamo Jeff.”. Un mese dopo stavano già insieme. Ripensò alla sera in cui aveva perso il lavoro. A quando era tornato a casa ubriaco. A quando la prima ragazza aveva chiamato per cercarlo, a tutte le altre. Lei mantenne un’espressione solida di fronte al bambino e appoggiò la fronte alla sua. – Ade, certo che il tuo papà ti vuole bene.
– E allora perché ha fatto tutte quelle cose brutte? Perché lui non è venuto nella casa nuova?
– Be’, perché lui adesso è molto impegnato. Però ci sono io. E poi c’è zia Lene, e ci sono i tuoi nonni.
– Ma i nonni e zia Lene se ne vanno la settimana prossima – precisò lui, un po’ triste. Sua madre allontanò la fronte dalla sua e gli sorrise, incoraggiante.
– Vorrà dire che resteremo noi tre. – Gli prese le mani, e il bimbo alzò il viso, guardando la donna negli occhi. – Anche così possiamo essere una famiglia, sai?
Lui annuì. – Io sono contento, mamma, se… se papà non viene più da noi.
– Tranquillo, Adrian. Non devi più avere paura di niente. La mamma ha tutto sotto controllo – disse Lene, scambiando un’occhiata con la sorella. – Tu hai una mamma davvero super.
– Sì, lei è la mamma migliore di tutto il mondo! – Il bambino si lanciò al collo della mamma, che gli baciò la guancia.
Adrian dormiva profondamente accanto a lei, ed era ormai notte fonda. La luce della luna illuminava la stanza con la sua luce pallida e bluastra. La manina della figlia si strinse attorno al suo dito. La guardò in viso e vide che era sveglia.
– Non riesci a dormire, eh? – bisbigliò, lei scosse la testa. – Le case nuove possono fare quest’effetto. Bisognerà abituarsi.
Le tornò in mente la ninnananna che aveva sognato proprio quel pomeriggio, quella di nonna Janneke. Iniziò a canticchiarla alla bambina, accarezzandola piano. Era talmente bella da sembrare una bambola. E le sue palpebre piano piano scivolarono in basso, chiudendo le sue finestre sul mondo.
Ripensò alle sensazioni provate non appena arrivata sul vialetto. Sul momento non avrebbe saputo stabilire con precisione se dentro avesse avuto più felicità o tristezza, ma adesso lo sapeva.
Suo figlio si era sentito di nuovo al sicuro dopo chissà quanto, così tanto da aprirsi sul grosso trauma che aveva vissuto e di cui non aveva mai fatto parola se non fino a poche ore prima. Avrebbe fatto di tutto perché Adrian tornasse a essere sereno. E perché loro fossero sempre protetti.
Quel giorno aveva varcato una nuova soglia. E lui non c’era. Adesso erano veramente a casa.
– Buonanotte, Angel.
Episodio Sei di Dodici, Amalia Marro
Editing: Gloria Macaluso
“Dodici” è la serie spin-off legata al romanzo Dodici Giorni.
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