Dodici La Serie – Episodio 1
26 novembre 1997
Stabright Beach, Los Angeles, California
– Adesso fai un respiro profondo. Prendi tutta l’aria che puoi e mandala giù!
Jennifer ubbidì. Aprì la bocca e gonfiò le guance.
– Ora buttala giù, ma cerca anche di tenerla ferma!
Strinse gli occhi e tentò di bloccare la palla d’aria a metà gola.
– Apri la bocca e spingila fuori fortissimo.
Sentì un piccolo fragore nel petto e riuscì nell’impresa. Un piccolo ma chiaro burp.
– Che schifo! – protestò Angel. Era seduta sul prato, e giocava con degli animali di legno. I piedi nudi sporchi di terra, e la salopette di jeans macchiata d’erba ovunque.
– Tu sei invidiosa perché i rutti finti non li sai fare! – disse Adrian, suo fratello, con aria di superiorità. Angel lo guardò male. – Bugiardo! Io li so fare, non li faccio solo perché sono super schifosi!
– Dai, Jennifer, prova di nuovo. – la incoraggiò lui, e la bambina ripeté l’operazione di poco prima, con un risultato ancora più soddisfacente e rumoroso.
– Bravissima!
– Evviva! Stasera voglio fare una gara di rutti con tutti gli altri! – disse lei, entusiasta, mentre Angel alzava gli occhi al cielo.
– Lo sapete che i rutti finti possono farvi scoppiare la gola?
– Non è vero! – rispose Adrian. Angel alzò le spalle.
– Be’, se poi vi scoppia la gola non vi lamentate.
– Bambini, è pronta la merenda! – la voce di Phyllis Van Doorn arrivò alle loro spalle interrompendoli. La donna avanzava lentamente verso un tavolino da tè, tra le mani aveva un vassoio carico di frutta, con tre grossi bicchieri pieni di un liquido giallo e brillante. Angel si alzò dalla sua posizione e le corse incontro. – Che bello, nonna! Morivo di fame! Mi hai sbucciato anche l’uva?
Adrian fece il verso alla sorella, e Jennifer gli diede un colpetto sul braccio. – Non devi prendere in giro Angel.
– Ahi! Mi hai fatto male!
Jennifer sorrise soddisfatta. – Era quello che volevo!
– Pensavo fossimo amici anche noi due! – mormorò Adrian, massaggiandosi il braccio.
– Noi due siamo amici, ma se prendi in giro Angel, devi vedertela con me!
– Voi femmine siete proprio antipatiche – fece lui, andando verso la nonna. Angel stava portando un bicchiere di limonata a Jennifer. Si voltò verso suo fratello e gli fece la linguaccia.
– Le migliori amiche si difendono sempre, Adrian, non lo sapevi?
Lui sbuffò vigorosamente, pestando i piedi sul terreno.
– Cosa c’è, tesorino? – chiese la nonna, vedendo il suo muso lungo, mentre gli porgeva della limonata.
Adrian pensò quasi di fare la spia e dire alla nonna che Jennifer gli aveva dato un pugno. La guardò ridere e scherzare con Angel, e decise di non farlo. – Adrian?
– Hm…? Niente, niente. – si affrettò a rispondere lui.
– Niente, eh? D’accordo. Ora mangia la tua frutta, vi lascio tutto qui sul tavolino. Jennifer, cara, mangia qualcosina anche tu, mi raccomando! Io torno dentro a dare una mano alla mamma e zia Lene. Tu hai tutto sotto controllo, qui fuori, giovanotto?
– Certo che sì! – disse lui, orgoglioso. Bevve la sua limonata tutto d’un sorso e poi riprese fiato. La donna lanciò un ultimo sguardo alle bambine che stavano giocando con gli animali di legno sotto la quercia, e poi tornò in casa. Sentiva le figlie chiacchierare in cucina. Fece capolino sulla soglia e riprese a preparare il ripieno per il tacchino, che aveva abbandonato nella sua casseruola sul tavolo poco prima. – Come procede la preparazione della torta di compleanno?
– Bene, mamma – rispose Amanda Van Doorn, dando una veloce controllata agli ingredienti esposti sul bancone della cucina. Le mani sui fianchi. – C’è tutto, sarà pronta giusto in tempo!
– Mi sembra un po’ strano che quella piccolina festeggi il suo compleanno qui da voi e non a casa sua… – fece sua sorella Helene, lanciando uno sguardo fuori, in direzione delle vocette allegre. I bambini adesso stavano giocando insieme, godendosi il caldo sole inaspettato di quel pomeriggio, dopo settimane di piogge incessanti.
– È strano. Be’, in realtà sono proprio i suoi genitori ad essere persone strane – sospirò l’altra, rompendo un uovo nella grossa ciotola gialla che aveva di fronte. – Abbiamo festeggiato qui il compleanno di Jennifer anche l’anno scorso. Pensate che prima non le avevano mai lasciato fare niente del genere, odiano le feste. Pensano sia roba… peccaminosa! Dio solo sa che hanno in testa quei due. Ho dovuto insistere per mesi, erano inflessibili, il padre mi diceva sempre cose del tipo “la mondanità è la porta degli inferi.”
Helene spalancò gli occhi, stupita. – Una festa di compleanno per bambini è mondana, secondo loro? Mi stai prendendo in giro.
– Per niente – fece Amanda, rompendo il guscio di un secondo uovo. – Ho dovuto promettergli che non ci sarebbero stati clown, palloncini o volti satanici, anche se a dire la verità su quest’ultimo punto ho ancora qualche dubbio, perché non ho idea di cosa intendessero. Per maggiore sicurezza, non ci sono animaletti sui festoni. Comunque, Jennifer deve aver detto loro che non desiderava niente più di una festa di compleanno, e forse alla fine hanno ceduto per farla felice, a patto che me ne occupassi io. Hanno sottolineato l’assoluta volontà di essere esclusi da tutto, senza nessun coinvolgimento da parte loro.
– Questa storia è assurda! – sbottò Helene, mentre sua sorella riprendeva a mescolare gli ingredienti. – Okay, Ames, devo chiedertelo. Perché lo stai facendo? Col tuo lavoro e tutti i tuoi impegni, hai pochissimo tempo libero, domani è il Ringraziamento, e tu stai preparando una torta per una bambina che non è nemmeno tua figlia.
– Lene, è una cosa molto tenera da parte sua, lasciala stare – disse Phyllis, mentre affettava dei pezzetti di pane tostato.
– Certo, è encomiabile. Ma non ne capisco il motivo.
Amanda alzò le spalle. – Rendere felice Jennifer rende felice anche Angel. Loro due sono inseparabili fin dal primo giorno di asilo. Quando siamo arrivati in California, Angel era sempre silenziosa e triste. Poi ha incontrato Jennifer, ed è ritornata la bambina solare che era prima del divorzio e di tutto il resto…
– Si vede che sono molto affezionate l’una all’altra – aggiunse la nonna, con una nota di tenerezza nella voce.
– Lo sono davvero. Per cui, ora prepareremo una bellissima festa per la migliore amica di mia figlia e stasera ospiteremo con allegria dodici bambini urlanti, e gli altri genitori accetteranno la stranezza della situazione senza un fiato, proprio come hanno fatto l’anno scorso.
– Immagino che i genitori di Jennifer resteranno relegati nel seminterrato.
– Oh, loro non verranno. Non sono venuti nemmeno l’ultima volta.
– Non sono venuti qui, sul serio?
– Non varcherebbero mai la soglia di casa mia, Lene. Sono una donna con due figli, single, che lavora – disse, e caricò l’ultima parola con parecchia enfasi. – In realtà, mi sorprende che le lascino essere amiche, e che lascino venire Jennifer a giocare con Angel e Adrian quasi ogni pomeriggio.
– Tu sei un’ottima madre, questo non possono negarlo nemmeno due come quelli – fece Lene.
– Con due genitori simili, mi sorprende che lei sia una bambina tanto simpatica e dolce! – disse Phyllis, triturando delle castagne.
– Tutta farina del suo sacco. E a proposito di farina… quanta ne serve? – Amanda allungò un braccio, aprì l’anta sulla sua testa e tirò fuori un sacchetto blu.
– Tre tazze – rispose Helene, controllando il libro aperto sul tavolo alla voce “Torta classica di compleanno.”
Amanda versò la polvere bianca in un setaccio, e sollevò una piccola nube. L’odore polveroso saturò l’aria per qualche istante.
– Ho come l’impressione che Adrian faccia di tutto per attirare l’attenzione, quando c’è Jennifer in giro. Mi sbaglio? – chiese Phyllis, mentre aggiungeva le castagne tritate al suo ripieno.
Amanda sorrise. – Sì, l’avevo notato anch’io. Credo proprio che il mio ometto si sia preso una bella cotta.
– Prima li ho beccati mentre bisticciavano, e lui era tutto rosso! – disse la nonna. Helene batté le mani, divertita.
– Oh, Ames, ti ricordi la cotta che avevi tu alla sua età per Timothy Smith?
– Come potrei dimenticarla! – disse con teatralità Amanda, mentre Helene scoppiava a ridere. – Il mio primo cuore spezzato!
– Ma se sei stata tu a lasciarlo!
– Davvero?
Helene annuì, divertita. – Sì! Dicevi che eravate troppo diversi, e tra voi non poteva esserci alcun futuro.
– Allora a nove anni avevo più cervello di quanto ne avessi quando mi sono sposata con Jeff – mormorò lei, con tono amareggiato, brandendo con rabbia una grossa bottiglia di latte e svitandola con più forza di quanta ne occorresse.
– Ne avevi anche quando ti sei sposata, non potevi certo immaginare… – aveva detto Phyllis, interrompendo le sue operazioni per voltarsi verso la figlia.
– …che mio marito si sarebbe rivelato il più grande pezzo di merda esistente al mondo? – continuò lei. – No, forse no. Ma i miei bambini stanno crescendo senza un padre, e se avessi aperto gli occhi prima, probabilmente adesso non sarebbe così.
– Adrian ed Angel non hanno certo bisogno di un padre come quello – fece Helene, alzando un sopracciglio. Non somigliava molto a sua sorella. L’unico elemento in comune con lei era il rosso acceso dei capelli, che portava corti in un caschetto dal taglio sbarazzino. Insegnava matematica in un liceo di Hartford, dove viveva con la sua compagna, Quinn, e non amava particolarmente Starbright Beach. Ci tornava solo durante i periodi di festa, per stare insieme a sua sorella e ai nipotini. Da piccole, lei e Amanda trascorrevano tutte le estati in quella casa, al numero 4 di White Roses Road, e in California faceva sempre troppo caldo per i suoi gusti. Durante la prima parte della giornata, quella che preferiva, andavano al mare con la loro madre, mentre Jeroen, il padre, restava sempre coi nonni. Di pomeriggio, considerando le temperature bollenti, dovevano rifugiarsi all’ombra del salone. Il nonno si chiamava Bas e preparava bibite fresche e gelati fatti in casa. La nonna, Janneke, era una donna un po’ strana, che beveva una tazza di tè fumante ogni pomeriggio, anche durante il torrido mese di agosto. Durante le sue vieruurtjes, così chiamava le merende pomeridiane, mangiava un solo biscotto. Uno soltanto. Lo prendeva, e poi chiudeva con cura la scatola di latta. Al contrario di nonno Bas, che parlava in inglese con le bambine, nonna Janneke parlava solo in olandese e raccontava sempre storie su Volendam, la sua città natale. Voleva ritornarci, lo ripeteva spesso, ma non lo aveva mai fatto.
Quando Amanda aveva comunicato di volersi trasferire nella vecchia casa dei nonni con i bambini, Helene quasi non ci aveva creduto. Da New York, la più grande metropoli al mondo, a quel buco opprimente di Starbright Beach? Una vera follia.
– Lene, puoi accendere il forno? Centottanta gradi, grazie.
– Okay – rispose, attraversando la cucina e muovendo la manopola che fece scattare una lucina gialla. – A che ora verranno gli altri bambini per la festa?
– Intorno alle sei – rispose Amanda, mentre imburrava uno stampo da forno. Il suo telefono cellulare trillò, e tutte e tre le donne si voltarono a guardarlo.
– Vado io – si offrì Helene, che era l’unica ad avere le mani pulite. Volò al telefono e rispose. – Telefono di Amanda Van Doorn, chi parla?
– Amanda…?
Helene si raggelò. Avrebbe riconosciuto quella voce anche tra mille, a distanza di anni. – Come hai avuto questo numero?
– Oh, Lene… ciao… come stai?
– Per te sono Helene. E rispondi, come hai avuto questo numero e cosa vuoi?
– Vorrei parlare con Amanda.
– Chi ti ha dato il suo numero di cellulare? – disse lei, brusca. Amanda si voltò a guardare sua sorella. C’era una sola persona in grado di scatenare in lei un malumore tanto repentino.
– L’ho avuto da Suzanne.
– Suzanne dovrebbe sapere che non puoi più telefonare ad Amanda. C’era anche lei in tribunale, quel giorno.
– Farò presto. Devo solo parlare un secondo con Amanda.
Helene allontanò da sé il cellulare, disgustata. Lo passò a sua sorella, che annuì. Prese un respiro profondo e si pulì le mani sul grembiule. – Pronto?
– Amanda, ciao… come stai?
– Cosa vuoi, Jeff? – ripeté la domanda che gli aveva già posto sua sorella. Lui tossicchiò. Proseguì, con tono imbarazzato.
– Come stanno i ragazzi?
– Vuoi assicurarti che stiano abbastanza bene per poterli traumatizzare di nuovo?
– Io… ecco, avrei bisogno di un favore.
– Un favore. Incredibile… – mormorò lei, più a sé stessa che a lui. L’uomo al telefono continuò a parlare.
– Ascolta, mi servirebbero 600 dollari. Flor, la mia ragazza, ieri sera è finita in carcere e dovrei pagare la cauzione…
– Jeff, tu hai un ordine restrittivo verso la nostra famiglia. Sai cos’è un ordine restrittivo? Vuol dire che non puoi telefonare qui, è un reato se lo fai.
– Dai, Amanda, è l’ultima volta, per favore…
Attaccò. Aveva davvero sperato di non sentire più la sua voce. Sentì un tremore dentro e una sensazione di paura la pietrificò col cellulare in mano di fronte al lavandino.
– Cosa voleva? – chiese Helene, arrabbiata. Amanda provò a dire qualcosa, ma le sue labbra tremarono e scoppiò a piangere, e si ritrovò in un attimo stretta nell’abbraccio di sua sorella.
– È tutto a posto, tranquilla. È tutto okay.
Phyllis aveva notato la figurina di Angel apparire appena dietro l’ingresso della cucina. Chissà da quanto era rimasta lì, nascosta. Si alzò e la raggiunse, piegandosi un po’, accarezzando la sua testolina. – Hey, tu, perché non sei lì fuori a divertirti con Adrian e Jennifer?
– Con chi parlava la mamma? – chiese, con lo sguardo basso. Amanda si asciugò gli occhi frettolosamente e cercò di sorridere. – Era… papà?
Amanda guardò negli occhi sua figlia, facendole cenno di avvicinarsi. Angel andò verso sua madre, che si inginocchiò per guardarla.
– Dimmelo tu. Secondo te, era papà?
– Sì.
La madre annuì, stringendo forte a sé la bambina. – Non posso nasconderti nulla, tu sei una vera detective.
– Sta venendo qui?
– No, amore. Vive molto lontano, adesso.
Angel annuì, e guardò il viso di sua madre. Allungò una manina per asciugarle una lacrima che era scivolata sulla sua guancia. – Mamma, non piangere…
– Non ti preoccupare amore, è già passato – disse lei, sorridendole e rialzandosi in piedi. – Adesso, signorina, dimmi un po’, dove sono le tue scarpe?
Angel si morse le labbra, e sua madre premette un dito sul suo naso. – Non lo so, credo in giardino!
– Perché non vai a cercarle? E dopo che le avrai trovate, ti porterò di sopra a fare un bel bagnetto. Certo, non vorrai essere tutta sporca di terra quando arriveranno i tuoi amici per la festa di Jennifer! Ma come hai fatto a conciarti così?
– Ho scavato una buca! Volevo cercare dei folletti! – disse Angel, come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
– Avrei dovuto immaginarlo, certo. – Amanda le diede un bacio sulla fronte e poi la bimba corse fuori. Restò a guardarla fino a quando sparì dalla sua vista. Quando sentì il rumore della porta che si chiudeva dietro di lei, riprese il suo cellulare e cercò un numero nella rubrica.
– Cosa fai? – chiese Helene, mentre sua sorella portava il telefono all’orecchio.
– Una telefonata veloce. – Amanda attese qualche secondo, fino a quando una voce di donna rispose dall’altra parte.
– Amanda! Che bella sorpresa!
– Ciao, Suzanne.
– Sono felice di sentirti.
– Suzanne, ho appena ricevuto una telefonata di Jeff. – Calò il silenzio. Amanda non aspettò molto, prima di riprendere a parlare. Il suo tono era gelido e deciso. – Sei stata tu a dargli il mio numero?
– Non volevo darglielo, ma ha insistito così tanto che…
– Molto bene – disse lei, lapidaria. – Ti comunico che questa sarà la nostra ultima conversazione.
– Ames, dai, non dire sciocchezze, io sono la tua migliore amica.
– Non dico affatto sciocchezze. Hai deciso di dargli il mio numero di telefono. Se ti avessi detto il mio indirizzo gli avresti dato anche quello?
– Ascolta… ha detto che era pentito, voleva parlare con te…
– Cosa non ti è chiaro del fatto che Jeff abbia provato a rapire mia figlia, Suzanne? Anzi, permettimi di riformulare. Cosa non ti è chiaro del fatto che Jeff abbia provato a rapire mia figlia quando aveva solo due anni? Mi sembra una cosa piuttosto grossa, è strano che tu non ci abbia pensato, quando hai deciso di espormi nuovamente a un uomo simile.
– Lui ha detto che voleva chiederti perdono, che sta facendo di tutto per cambiare, restare pulito, e io pensavo che…
– Hai pensato male. Mi ha chiesto dei soldi per tirare fuori di prigione la sua fiamma del momento. Ha violato l’ordine restrittivo, e tu lo hai aiutato a farlo. Da oggi questo numero non sarà più reperibile, e farò in modo che quello nuovo non ti arrivi mai, visto che a quanto pare non posso fidarmi di te.
– Sai che puoi fidarti sempre di me!
– Non è quello che hai dimostrato. L’incolumità della mia famiglia è troppo importante per correre rischi evitabili. Io proteggerò sempre i miei figli, Suzanne. Li proteggerò da chiunque.
– Amanda, ora sei sconvolta, e mi dispiace, ma…
– Stammi bene. – Chiuse la comunicazione, e un attimo dopo aprì il retro del telefono. Tirò fuori la batteria interna, che aveva la forma di un compatto mattoncino rettangolare grigio scuro e sfilò la carta SIM. Helene gliela prese dalle mani con un sorriso un po’ forzato, che voleva essere incoraggiante.
– Penso io a farla sparire.
Amanda annuì, grata. – Ho dimenticato di mettere la torta in forno.
– Va’ a prendere Angel e portala a fare il bagno, alla torta ci penso io – disse con dolcezza Phyllis, riponendo la casseruola con il ripieno del tacchino in frigorifero e dirigendosi al bancone della cucina, su cui troneggiavano zucchero, burro, farina e una confezione di cacao in polvere.
Amanda si avviò verso la porta sul retro, Angel le corse incontro con le sue scarpine, felice di averle ritrovate. Ripensò a quella notte da incubo di quattro anni prima. L’aveva presa tra le braccia avvolta in una coperta di lana, nel buio gelido della stazione di Montauk. Era piccola, indifesa, e tremava per il freddo. Lui stava lì, e piangeva, chiedeva scusa, non sapeva cosa lo avesse spinto a tanto. Jeroen Van Doorn lo teneva ben saldo per evitare che scappasse via. Soltanto poche ore prima, Jeff aveva minacciato di portare Angel via per sempre, per punire Amanda, per farla soffrire. Amanda era tornata a casa, aveva trovato la porta aperta. Mamma, è venuto papà. Ha litigato con zia Lene.
Sua sorella aveva un occhio nero, il naso insanguinato, piangeva. Ha portato via Angel, non ho potuto fermarlo, scusami.
Lo avevano rintracciato prima che prendesse un treno per Babylon. La voce di suo padre. Amanda, raggiungimi a Montauk. L’ho trovato. La bambina sta bene.
Era corsa in auto con Suzanne. Quelle tre ore interminabili col cuore in gola. Erano arrivate alle undici e tre minuti e la stazione era semideserta. Una senzatetto seduta a terra. Una coppia semiaddormentata su una panchina. E lui. Il nonno aveva recuperato la bambina, la teneva con un braccio, e la mano libera stringeva la giacca di Jeff che piangeva. Era scappato a Montauk, poi aveva pensato di ritornare indietro, voleva andare a Babylon e poi a Filadelfia. Non ricordava di aver aggredito Helene. Era troppo alterato. Aveva chiamato Jeroen prima di partire, perché Angel aveva smesso di piangere e lui aveva avuto paura di averla uccisa. Aveva raccontato tutto con fare patetico e lei lo aveva guardato negli occhi e lo aveva odiato.
E ora guardava quegli stessi occhi sul faccino di sua figlia, provando soltanto un infinito amore.
Lui non l’avrebbe toccata mai più. Non l’avrebbe mai più messa in pericolo. A costo di cancellarlo dalle loro vite per sempre.
– Andiamo a fare il bagno, Angel, okay?
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